Da piccolo ne ero convinto: sarei dovuto arrivare a conoscere ogni animale sulla faccia della terra. Un professorone di cinque anni che a ogni occasione li identificava tutti, da sua maestà il re della savana ad altri decisamente meno gloriosi. A quale creatura appartenesse Animal Head di Henry Moore, però, sono abbastanza certo che non l’avrei saputo dire. Ma crescendo non ho mai smesso di assecondare la mia curiosità, di fare domande e, quando ci sono, di raccontare le risposte: è l’unica cosa che ritengo di saper fare bene.
Trovo che la scultura realizzata da Moore nel 1951 abbia a che fare con tutto questo, con me, con la mia curiosità e con quegli animali che da piccolo cercavo di conoscere a memoria. L’osso che in realtà è gesso, l’alternarsi di pieno e vuoto, la sensazione di simmetria al primo sguardo che diventa inquietudine già al secondo. È tutto e il contrario di tutto, ma se non ti chiedi nulla, se non lo scopri, non lo sai.
Henry Moore, artista britannico attratto dalla forza e l’energia sprigionate dal mondo naturale, scolpisce la sua prima testa d’animale nel 1921; da allora e fino agli anni ’80 questo soggetto si ripresenta più volte nella sua carriera. Animal Head cela un’armatura di legno e fil di ferro, su cui lo scultore ha steso e plasmato vari strati di gesso. La testa poggia orizzontalmente su una base rettangolare in legno nero satinato, su cui però è fissata solo l’esigua base del collo; ciò conferisce un senso di sproporzione e sbilanciamento in avanti. Il muso irregolare ospita la bocca dell’animale, il cui interno ha un colore più scuro che dà la sensazione di profondità.
Tutto mi riporta al mio passato, quando passavo ore tra documentari e libri illustrati per pura curiosità, ma mi tiene anche nel presente, ricordandomi che la passione per la scoperta e l’informazione che ne deriva fanno di me chi sono oggi.
Ho davanti agli occhi il teschio di un animale, ma molto più che alla mortalità penso alla vita che c’è dietro. Di che animale si tratta? Perché mi attira l’illusione del vuoto che Moore ha creato al suo interno?
Probabilmente perché, come sostiene il critico Herbert Read, l’obbiettivo di Moore è schiudere l’essenza vitale dei suoi grotteschi animali a discapito della perfezione anatomica. In effetti, se si osserva la parte superiore della testa, si nota il totale predominio della prima sulla seconda: le cavità sulla parte superiore del cranio sono irregolari e imprevedibili, al punto da dare all’opera un aspetto ogni volta differente a seconda del punto di vista; sul lato sinistro si scorge quella che pare una cavità oculare, ma si rimane sorpresi di non trovare la sua gemella sul destro. Nel complesso il teschio è distorto, indecifrabile e imprevedibile, e mi cattura perché, in verità, ne so molto poco e non riesco a cogliere dove voglia portarmi. Ci vedo tanto in comune con quella realtà che ogni giorno cerco di raccontare attraverso il giornalismo.
La forza di Animal Head è quella della natura, e la forza della natura è quella dell’ignoto e dell’inarrestabile che non ti aspetti. Quanto avrei voluto vedere la mia faccia, se da bambino mi avessero sottoposto un animale del genere! Altro che professorone.
“Per me un’opera deve prima di tutto avere una propria vitalità - affermava Henry Moore nel 1934 - un’energia repressa, una vita propria, indipendente dall’oggetto che l’opera può rappresentare”. Io questa sua creatura la immagino solcare campi d’erba alta, vivere in branco, migrare e un giorno morire, nessuno sa come; la immagino in tutto questo e mi piacerebbe darle un nome, essere testimone della sua esistenza e renderne una parte a tutti. Non so se si tratti di una sorta di vocazione per il racconto, di un desiderio innato di verità o solo di “banale” passione, eppure più penso alla mortalità di quest’opera e più voglio conoscerla. Questa mi porta a chiedermi: quante cose io stesso non so di me, a partire dal mio futuro e dove questo mi porterà… Quell’animale potrei essere io, quella testa la mia. Una testa che parte da ciò che non so e si mette in moto. Mi sveglia come quando guardavo i miei documentari da piccolo, quando non sapere le risposte era un energizzante per trovarle presto.
La “vitalità” intrinseca che Moore cerca di instillare in ogni opera a discapito dell’anatomia, questa “estranea”, è anche la vitalità che alberga in chi osserva. È anche la mia. Animal Head è una casa intelligente che sa già del mio arrivo e si aspetta che una volta entrato la viva a modo mio, in modo non per forza gradito ma per me necessario. Una casa vuota e ormai disabitata solo in apparenza, che anziché sconfortarmi mi spinge a esplorarla facendomi domande, fantasticando, percependo un’incertezza che è benzina per avventure.
Se il giornalismo mi ha conquistato perché viaggio continuo che porta luce nel mondo, penso invece all’arte come un mio modo per viaggiare ovunque anche da fermo, scoprendo nelle cose dei significati che vivranno anche in me. Ciò che li accomuna è che in entrambi parto da qualcosa per arrivare sempre a qualcos’altro, e all’arrivo non sono mai uguale a com’ero in partenza. Senza mai smettere di fantasticare, farmi domande e catalogare i miei nuovi animali. Con quello di Henry Moore ne conto già uno di più.
Claudio Zagara nasce a Palermo nel 1991. Vivrebbe di pallacanestro e Juventus, ma si fa convincere che sia il caso di studiare e si laurea in Scienze della comunicazione per i media e le istituzioni.
Durante l'università incontra l'altra sua grande passione, il giornalismo, e decide di farne un lavoro. Dopo i primi passi nel mondo della stampa approda a Live Sicilia, quotidiano on line regionale siciliano, con cui attualmente collabora.
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