27 ottobre 2018, New York - Un martello d’asta batte l’incredibile cifra di 432 mila dollari per il ritratto di Edmond de Belamy, frutto del lavoro di “un’artista emergente”, o quasi. L’inizio di una nuova apertura del mercato dell’arte, verso nuove intelligenze.
La sua prima incursione nel mondo dell’arte? Beh, da Christie’s.
Il ritratto, diventato famosissimo in men che non si dica, fa parte di una collezione di dipinti creati dallo stesso algoritmo, una famiglia immaginaria. Frutto della fantasia del computer e dell’intensa ricerca del collettivo Obvious.
L’artista? Non è altro che un algoritmo, conosciuto come GAN (Generative Adversarial Network), una Rete Antagonista Generativa. Naturalmente si tratta di algoritmi che hanno la capacità di apprendere grandi quantità di dati da diversi input, e usano questi per produrre dei nuovi risultati, ovviamente dopo un lungo periodo di formazione. La loro capacità di apprendimento, però, non è sinonimo di autonomia.
Nonostante si sia andati avanti nella sperimentazione, siamo ancora molto lontani dalla possibilità di paragonare l’intelligenza artificiale a quella umana.
Del resto, Ada Lovelace, matematica inglese, scrisse che una macchina non potrà avere intelligenza umana fino a quando continuerà a fare solo ciò per cui l’uomo l’ha intenzionalmente programmata.
Per ottenere questi risultati, il collettivo ha alimentato il sistema con i dati di 15.000 ritratti dipinti tra il XIV e il XX secolo. Permettendo al computer di discriminare tutte le informazioni non necessarie per l’elaborazione della serie.
“Tramite l’impiego dei ritratti abbiamo scoperto che gli algoritmi sono perfettamente in grado di emulare la creatività artistica del pittore in carne e ossa”, le parole di Hugo Caselles-Dupré del collettivo Obvious.
Naturalmente, come ogni grande opera che si rispetti, ha bisogno di una storia che ne permetta la sopravvivenza, al gentiluomo, seppur irreale, Belamy ne è stata inventata una: il suo nome è un omaggio a Ian Goodfellow, sviluppatore del programma GAN, il cui cognome si traduce in “Bel ami”.
Sul sito della casa d’aste, Jonathan Bastable, sostiene che l’uso degli “algoritmi di AI non solo creano immagini, ma tendono a modellare la Storia dell’Arte – come se il lungo progresso dell’arte dal figurativo all’astratto fosse parte di un programma in esecuzione nell’inconscio collettivo, e tutta la storia della nostra cultura visiva fosse un’inevitabilità matematica”.
Naturalmente, le critiche non sono mancate. Il quadro secondo molti, non può fregiarsi del titolo di opera d’arte, perché non prodotta dalla sensibilità e dalle emozioni umane e la componente estetica non basta a definirla tale. Dunque, archiviare, compilare, rielaborare non basta. L'intuizione, difficilmente può essere sostituita e l'algoritmo non è riuscito a inventare altro che un ritratto.
Consapevole dell’impatto mediatico che il ritratto di Edmond de Belamy ha avuto nella società, il collettivo, incurante delle polemiche risponde:
“Abbiamo sottoposto le creazioni a più persone chiedendo loro di dare un giudizio confrontando diversi lavori: alcuni prodotti da un artista reale, altri invece dall’algoritmo. Il risultato? Non si sono accorti della differenza e anzi, in alcuni casi, hanno preferito opere prodotte artificialmente”.
Che l’intelligenza artificiale possa, in qualche modo, diventare un nuovo medium dell’arte?
Obvious è un collettivo di ricercatori, con sede a Parigi, composto da Hugo Caselles-Dupré, Pierre Fautrel e Gauthier Vernier. Nella testa di questi tre amici, una domanda continua ad emergere: l'intelligenza artificiale può o no, nutrire una qualche forma di creatività? Una domanda filosofica, risposta piuttosto automatica: sì. Ovviamente, intendono dimostrarlo.
Di Caterina Quartararo
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